Il colpo di grazia*
di Marguerite Yourcenar
Due o tre volte si fermò davanti a me, mi posò la mano sulla manica e scosse la testa, per riprendere subito dopo con passo pesante il suo andirivieni rassegnato. Sapeva come me che ci saremmo inutilmente disonorati se avessimo proposto ai nostri compagni di risparmiare quella sola donna, e una donna che (lo sapevano tutti) era passata al nemico. Io mi voltai dalla parte del muro per non vederlo; avrei fatto fatica a trattenermi dal fargli una scenata; eppure era lui, soprattutto, che compiangevo. Quanto a Sofia, non potevo pensare a lei senza sentire alla bocca dello stomaco una specie di nausea da odio che mi faceva pensare con sollievo alla sua morte. La reazione veniva, e io picchiavo la testa contro l’inevitabile come un prigioniero contro il muro della sua cella. L’orrore, per me, non era tanto la morte di Sofia quanto la sua ostinazione a morire. Sentivo che un uomo migliore di me avrebbe trovato qualche meraviglioso espediente, ma io non mi sono mai fatto illusioni sulla mia mancanza di genio del cuore. La scomparsa della sorella di Corrado avrebbe almeno liquidato la mia giovinezza passata, avrebbe tagliato gli ultimi ponti fra quel Paese e me. Infine riandavo con la mente alle altre morti alle quali avevo assistito, quasi potessero giustificare l’esecuzione di Sofia. Poi, pensando al basso prezzo della derrata umana, mi dicevo che stavo dando troppa importanza a un cadavere di donna sul quale mi sarei appena intenerito se l’avessi trovato già freddo nel corridoio della fabbrica Warner.
Il mattino seguente Chopin mi precedette sul terrapieno situato tra la stazione e la fattoria comunale. I prigionieri raggruppati su uno dei tracciati della rimessa sembravano un po’ più morti del giorno prima; quelli dei nostri uomini che si erano dati il cambio per sorvegliarli, esausti da quella fatica supplementare, sembravano anche loro all’estremo delle forze. Ero stato io a proporre che si aspettasse il giorno dopo; lo sforzo al quale mi ero creduto obbligato per salvare Sofia non aveva avuto altro risultato che di infliggere a tutti una cattiva notte in più. Sofia era seduta su una catasta di legna, le sue mani pensose le pendevano fra le ginocchia allargate; e i tacchi delle sue grosse scarpe avevano meccanicamente scavato una traccia profonda nel terreno. Fumava senza tregua le sigarette del giorno prima; era l’unico segno della sua angoscia, e l’aria fresca del mattino le metteva sulle guance un bel colorito sano. I suoi occhi distratti non parvero rilevare la mia presenza. Senza dubbio il contrario mi avrebbe fatto urlare. Ma assomigliava troppo a suo fratello perché io non avessi l’impressione di vederlo morire due volte.
Era sempre Michele che in simili occasioni assumeva la parte del boia, come se continuasse a ricoprire così le funzioni di macellaio che aveva esercitato per noi a Kratowice quando capitava qualche capo di bestiame da abbattere. Chopin aveva dato l’ordine che Sofia venisse giustiziata per ultima, ancor oggi ignoro se lo fece per un eccesso di rigore o per dare a uno di noi la possibilità di difenderla. Egli cominciò dal piccolo russo che io avevo interrogato la vigilia. Sofia gettò un’occhiata rapida e obliqua su quanto succedeva alla sua sinistra, poi volse il capo come una donna che si sforzi di non vedere un atto osceno che si compia al suo fianco. Quattro o cinque volte echeggiò la detonazione, con quel rumore di scatola esplosa di cui, fino a quel momento, mi sembrò di non aver colto tutto l’orrore. All’improvviso Sofia rivolse a Michele un segno discreto e perentorio da padrona di casa che alla presenza degli invitati dia un ultimo ordine al domestico. Michele avanzò curvando la schiena con la stessa stupefatta sottomissione che avrebbe avuto sul volto al momento di ucciderla, e Sofia mormorò qualche parola che dal movimento delle sue labbra non riuscii a capire.
«Bene, signorina.»
L’antico giardiniere mi si avvicinò e mi disse all’orecchio con un tono burbero e deprecatorio da vecchio servitore intimidito, conscio che un simile messaggio gli costerà il licenziamento:
«Ella ordina… la signorina chiede… vuole che sia lei…»
Mi tese una pistola; io presi la mia e avanzai automaticamente d’un passo. Durante il breve tragitto ebbi il tempo di ripetermi dieci volte che forse Sofia aveva un ultimo appello da rivolgermi, e che un simile ordine non era che un pretesto per poterlo fare a voce bassa. Ma non mosse le labbra: con un gesto distratto aveva cominciato a sbottonarsi la camicia come se dovessi mirare al cuore. Devo dire che i miei rari pensieri andavano a quel corpo vivo e caldo che l’intimità della nostra vita comune mi aveva reso familiare come quello di un amico; e mi sentivo sconvolgere da una specie di assurdo rimorso per i figli che quella donna avrebbe potuto mettere al mondo e che avrebbero ereditato il suo coraggio e i suoi occhi. Ma popolare gli stadi o le trincee dell’avvenire non è compito nostro. Ancora un passo e mi trovai così vicino a Sofia che avrei potuto baciarla sulla nuca o posare la mano sulla sua spalla agitata da piccole scosse quasi impercettibili, ma già non vedevo più di lei che il contorno di un profilo perduto. Respirava un po’ troppo rapida, e io mi aggrappavo all’idea che un giorno avrei voluto finire Corrado e che in fondo era la stessa cosa. Sparai con la testa voltata, un po’ come un ragazzo terrorizzato che faccia scoppiare un petardo durante la notte di Natale. Il primo colpo non fece che portarle via una parte del viso, ciò che mi impedirà per sempre di sapere quale espressione Sofia avrebbe adottato nella morte. Al secondo colpo, tutto fu compiuto.
Sulle prime ho pensato che chiedendomi di compiere un simile gesto, ella intendesse darmi una estrema prova d’amore, e la più definitiva di tutte. Ho capito in seguito che voleva soltanto vendicarsi e lasciarmi un’eredità di rimorsi. Il suo calcolo era esatto: ne ho, qualche volta. Con simili donne si è sempre presi in trappola.
* Tratto da: Marguerite Yourcenar, Il colpo di grazia, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 122-125.
Tratto da "Fili d'ambra. Il Rinascimento del Baltico." di Mario Geymonat e Giampiero Mele, Sandro Teti Editore.