L’ambra del baltico

02.12.2014. 19:09

L’ambra del baltico*

carteggio immaginario con giuseppe tomasi di lampedusa

di Boris Biancheri

Nota

Fino al 1914 in gran parte dell’Europa le frontiere si varcavano senza passaporto. I patrimoni, e non le nazionalità, regolavano la frequenza e la destinazione dei viaggi. Molte anime irrequiete – e l’olimpico tramonto del secolo ne produceva in gran numero – si spostavano da un Paese all’altro per mesi o per anni con noncuranza. Tra questi viaggiatori infaticabili, tra questi perpetui clienti dei grandi treni europei c’era Alice Barbi. Aveva occhi scuri e minacciosi, un corpo ben fatto e una voce dolcissima. Era stata la mezzosoprano da camera più ammirata del suo tempo e, a trentaquattro anni, aveva deciso di lasciare la musica. Nel 1893 diede il suo concerto d’addio alla Bösendörfesaal di Vienna, accompagnata da Brahms al pianoforte. Poco dopo sposò un gentiluomo baltico, il barone Wolff, e con lui andò a vivere nel castello di Stomersee, in Livonia; e poi, sopraffatta dalla noia, a Pietroburgo, ma con frequenti soggiorni, come allora si usava, a Berlino, a Monaco, in Italia e a Nizza. Scelse quest’ultima città dal clima mite per mettere al mondo due figlie, Alessandra (Licy) e Olga (Lolette).

Nel 1917 il barone Wolff morì. Appena poté Alice fuggì dalla Russia e riparò a Riga e poi in Inghilterra. Qui trovò un diplomatico italiano, il marchese Tomasi della Torretta, che l’aveva a lungo e non inutilmente corteggiata a Pietroburgo. Malgrado egli fosse di quasi quindici anni più giovane di lei, i due si sposarono e il loro matrimonio fu lungo e, tutto sommato, felice. Anche le due figlie di Alice si sposarono, per dir così, in famiglia. Prima la più giovane, Lolette, che sposò un diplomatico italiano incontrato attraverso il padrino e ne ebbe due figli, uno dei quali scrive queste note. Poi la maggiore, che nella casa della madre e del patrigno aveva conosciuto un loro nipote, Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa. Con lui la ribelle e imperiosa Licy creò un singolare sodalizio di affetti teneri e prevalentemente cerebrali.

Le irrequietudini di Alice Barbi furono così all’origine di intrecci familiari in provenienza da terre lontane ma accomunati da una stessa sorte di splendore e di declino. Gli alberi genealogici di Giuseppe e di Licy, partendo l’uno dalla Sicilia e l’altro dal Baltico, giungono ai loro nomi e lì, non a caso, finiscono.

* Tratto da: Boris Biancheri, L’ambra del Baltico. Carteggio immaginario con Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano 1994, pp. 9-11; 135-152.

Palermo, 8 maggio 1957

Caro Boris,

il filo, come lo chiami tu, della distanza che ci separa si è allungato tanto che è difficile misurarlo. Nei mesi passati tu sei venuto a precipizio verso le cose di questo mondo, proprio mentre io andavo allontanandomene a grandi passi. Hai superato il concorso, sei ora un diplomatico diplomato, e me ne congratulo con te. Se prima avevi delle esitazioni esistenziali, sono certo che questo le ha cancellate; anzi, che non hai ancora digerito tutte le felicitazioni degli amici e dei parenti, e che a causa loro hai spesso un senso di pesantezza allo stomaco: sono questi gli invidiabili segni dell’essere vivo.

A me ben altro segno è giunto un giorno di fine aprile (il mese che dovrebbe essere destinato alle convalescenze) nel limbo di Capo d’Orlando, dove Dio vuole che non accada mai nulla di reale, e ha preso forma di un fiotto di sangue color lampone. Prima che avessero finito di ispezionarmi, girarmi, misurarmi, fotografarmi e squartarmi davanti e dietro, avevo già capito che quello era l’avvertimento definitivo. Avrei avuto un bel correre da un professore all’altro, riempire moduli e fialette di orina, perché sempre, sarei lì tornato, a quell’iniziale, suntuoso fiotto cardinalizio. Poco fa ho chiesto a uno di questi stregoni da quanto tempo il male aveva preso alloggio nei miei bronchi. La domanda gli era sembrata inutile. «Come si fa a dirlo? I tumori crescono lentamente o in fretta non solo a seconda della loro natura ma a seconda, anche, della natura del soggetto. Vede – e indicava una macchia appena distinguibile su una radiografia – il suo ha la dimensione di una mandorla…» Rifletteva, e io riflettevo quanto feroce fosse il paragone con un frutto che mi è sempre piaciuto, quella polpa acidula coperta di peluria verde acqua e, dentro, la scorza butterata, dura e ringhiosa all’inizio ma cedevole poi, e, al fondo, la virginale neutralità del seme che imita i denti che lo mordono. «Difficile dire… aggiungeva con gravità quell’inutile sapiente, il suo male avrebbe forse potuto essere già avvertibile qualche mese fa… di più non saprei dire. Se poi mi chiede quando la prima cellula deviante ha fatto capolino nei suoi bronchi, quando la millesima parte di una testa di spillo è venuta ad annidarsi nell’immenso estuario (si era fatto quasi poetico, ora che aveva preso dal mio miserando futuro le debite distanze), sì, nell’immenso estuario dei suoi bronchi e ha incominciato il suo lavoro di aggregazione nell’oscurità dei milioni di vasi sanguigni che lo popolano, se è questo che mi chiede, allora le dirò che può essere stato anche molto tempo prima, certo assai più d’un anno, forse due anni prima, forse tre…»

Presto saranno due anni e mezzo, giorno più giorno meno, da quando ho incominciato a scrivere Il Gattopardo. Con solennità e con vaga apprensione, perché sul fianco destro avevo avvertito, proprio nel momento in cui aprivo un quaderno intatto per scrivere le prime parole, un leggero, leggerissimo, dolore. È questo il modo di affacciarsi della morte? Se è così, io le ho fatto l’affronto di ignorarla.

Pensavo, fino a qualche tempo fa, alla morte come a una figura seducente e allusiva, al distillato dei desideri della giovinezza e delle ultime illusioni della vecchiaia, a una delle donne terribili e silenziose che abbiamo conosciuto o che avremmo voluto conoscere.

In passato ci è stata raffigurata come una mostruosa amazzone o una mietitrice che raccoglie un frumento di cui non sa che fare e ha tra i denti il vuoto che nei teschi prende il posto del riso. Di fronte a queste immagini la mia idea della morte era mille volte più civile e rassicurante. Ora però che la vedo da vicino, mi accorgo che l’una rappresentazione è altrettanto falsa dell’altra. Con buona pace di Dührer e dei suoi simili, ma anche delle mie speranze di ritrovare in extremis una compagna o un’amante, ti dirò che vista da presso la morte non è altro, caro nipote, che una vecchia signora stupida e vanitosa. Vi sono modi di venire a patti con lei, se si tiene conto delle sue ridicole suscettibilità: quando si avvicina, è bene andarle incontro; quando ti guarda, sorriderle. È bene forse anche cercarsi degli alleati che sappiano distrarla. Una signora senza emozioni, una burocrate appesantita che si impiglia nelle sue stesse pratiche, ne prende una a caso, ne ripone un’altra dopo averla appena sfogliata, con la mente ingombra di numeri e di date.

Dunque, un giorno di due anni e mezzo fa mi sono seduto al tavolo di una delle mie tre pasticcerie, e ho cominciato ad arroccare sul mio quaderno il filo delle memorie, tutto quello che so di questa terra e dei suoi presuntuosi abitanti; e intanto, senza che me ne rendessi conto, si dipanava il gomitolo della mia vita. Ora tutto il filo è passato dall’una all’altra parte, il mio libro è finito e la mia vita con esso.

Non vorrei commuoverti, ma neanche annoiarti col resoconto delle mie disgrazie. E poiché mi hai sfidato a parlarti del Baltico, ti prendo alla lettera. Meglio rimandare i pensieri all’indietro, dato che in avanti c’è il buio e nel presente poco che possa interessarti.

È strano che tu ti sia soffermato su un’immagine che ho anch’io chiarissima nella memoria: conosco bene quella nostra vecchia fotografia, sulla spiaggia di Riga, che ora sta nei cassetti di tua madre; ricordo che gliela diedi io stesso, anche se l’anno e le ragioni ora mi sfuggono. Di solito, anziché aiutare i ricordi, le fotografie li cancellano. Cose viste da altri, che con noi non hanno nulla a che fare: i nostri ridicoli abbigliamenti infantili, i nostri ebeti sorrisi, le rughe, i vestiti tagliati male e l’imbarazzo di stare in compagnia. Quello che abbiamo davvero visto, i nostri sguardi caduti sul mondo quel giorno, in quell’attimo in cui l’otturatore si apriva, le emozioni, i pensieri, il miracolo della memoria, tutto sparisce dietro un’immagine altrui; e quella resta, per sempre. Se poi ne sei tu l’autore, è forse ancora peggio: perché allora tu stesso hai mutilato il tuo passato. Quando un giorno tornerai indietro con la mente, troverai non la vita ma la carta: e, incapace di distinguere il reale dall’immagine, dirai perplesso a te stesso: tutto qui? Ho qualche centinaio di fotografie in album polverosi che per fortuna non apro quasi mai. Sono il frutto dell’acquisto di una macchina fotografica quando avevo poco più di vent’anni, e dell’illusione che essa mi avrebbe aiutato un giorno a rivivere i viaggi fatti con mia madre attraverso l’Italia e i miei primi entusiasmi per l’arte. Ora mi trovo tra le mani delle facciate sghembe e dei cornicioni sfocati, delle strade che sembrano tracciate sulla polvere, un cumulo di rettangoli di cartoncino che non suscitano nessuna delle emozioni di allora e ancor meno ne creano di nuove.

Per un caso, di quel pomeriggio in riva al Baltico e delle nostre due solitarie figure ricordo invece altrettanto bene sia la fotografia che hai trovato nei vostri cassetti sia le ore che hanno preceduto e seguito lo scatto.

Il giorno era incominciato stancamente a Riga in una camera dell’hotel Daugava (con vista sulla città attraverso il fiume), e si era poi granato davanti alle scrivanie di piccoli funzionari lettoni intimiditi dalla presenza di tua zia e dalla molteplicità dei miei cognomi, ma non perciò meno risoluti a far valere la loro autorità: questo spiega il mio panciotto, il cappello di Licy, così poco adatti alle sedie a sdraio di una località balneare, e le nostre facce accigliate.

La mattina era trascorsa con fatica. Le strade e le chiese della città erano senza voce e c’è da dubitare, ora che sono state abbandonate dai loro Teutonici fondatori, che la ritrovino mai. Sembra di essere tra le quinte di un teatro dove finiscono per sbaglio le comparse d’un altro melodramma. Un popolo di insegnanti di scuola, pensavo salendo le scale di uffici invecchiati anzitempo, una città elusiva, pensavo, come tutte le città fluviali, anzi doppiamente elusiva per essere fluviale e marittima allo stesso tempo, abitata da lettoni, baltici, ebrei, russi e polacchi, come nomadi in un accampamento pietrificato. Riga ha la precarietà degli avamposti, chilometri e chilometri di boschi muggiscono alle sue spalle e davanti ha un mare che, come l’Adriatico e il Mar Nero, conduce solo al passato. Ma quello era il mare che con innocente vanità voleva mostrarmi Licy: indifferente alla manifesta inconsistenza dei luoghi, le onde del Baltico le sembravano le più belle del mondo.

Come faresti una città, se potessi inventarla? Immagino che la costruiresti su un grande fiume, da poterci costruire dei ponti e permettere ai disperati di annegarsi. Ma vorresti anche un fiume più piccolo, o magari un canale, e delle confluenze: due acque, una maggiore e una minore, come il Corno d’Oro quando incontra il Bosforo. Sull’una si vedono passare grandi battelli carichi di emigranti partiti dai moli del porto non lontano: sull’altra, un viavai di chiatte, di maone e di gozzi in un dolce odore di legno fradicio. Quanto alla città vera e propria, una cinta di mura, antiche case di pietra dal tetto a gradini raggruppate attorno alla chiesa maggiore e alle loro piazze dai brevi selciati. Di là dai ponti, i nuovi quartieri dalle strade simmetriche, di dignità e decoro decrescente via via che dal centro ci si allontana verso l’orizzonte. Dall’altra parte, oltre le dune di sabbia, un vasto immobile mare dove nei giorni d’estate intravedi, come irridenti fantasmi, alcune vele. Così vorresti la tua città immaginaria: e così è Riga. Ma qui, se tu volessi nobilitare il plastico delle città, dotandolo di un fondale come che sia, alla tua fantasia verrebbe meno la materia. Dove prendere un’altura? Attorno si stendono piatti paesi dai nomi mutevoli, strade dritte percorse da oche e ragazze che vanno due a due dondolando il capo. Altrettanto faresti tu guardando questa natura poco inventiva. Così monotona è questa terra che non sai se ti allontani o se stai ritornando.

Licy mi aveva preso la mano a Bulduri, trascinandomi affettuosamente fino alla spiaggia. Voleva farmi vedere il mare. Avevamo superato delle case basse e un passaggio a livello che mi era parso un ammonimento a non procedere oltre. Poi, scavalcata una duna, il Baltico. Un chiarore argenteo veniva dalle tranquille acque del golfo. Andavamo così lungo la riva in preda a stati d’animo dissimili. Quelle due distese indifferenti, quella sabbiosa a sinistra e quella liquida a destra, non riuscivano a commuovermi e, a poco a poco, sentivo divenire irreale me stesso. Licy, invece, taceva sopraffatta dall’emozione o dall’orgoglio, misurando lo spazio con passo quasi trionfale. Ci dirigevamo verso ovest, o forse sudovest; ma più di quanto potessi giudicare dalla posizione di un pallido sole pomeridiano, non sapevo. Né mi sembrava che lungo quella striscia brunastra, orlata da lievi pendenze e ginepri smorti, potesse esservi una meta desiderabile.

Fortunatamente quella passeggiata didattica non durò a lungo.

Come sai, Licy non ama camminare. È un’attività che sente inferiore al suo rango e alla sua statura; a lei si addicono automobili, cavalli, slitte, piedistalli dai quali lo sguardo possa correre lontano, e senza essere costretto a posarsi sul ciglio della strada. Anche lì, in un pomeriggio senza fine, tra distese di detriti marini, quella passeggiata la stancò presto: si era rannuvolata in volto e si preparava a tornare indietro con la stessa solennità con cui si era fatta avanti. Fu allora che vide, a qualche decina di metri, un gentiluomo seduto su una chaise longue che guardava l’orizzonte. «Mon Dieu,» disse voltandosi verso di me che la seguivo, «Mon Dieu, Giuseppe, c’est le cousin Hahn; je croyais qu’il était mort depuis longtemps». Si avvicinava a lui – che volgeva lo sguardo altrove, e non si era accorto affatto della nostra presenza – scrutandolo senza imbarazzo e parlando a voce alta. «C’est bien lui,» ripeteva, «il n’y a pas un nez comme le sien au monde.» Licy procedeva spedita fino a che non gli fu così vicina che l’uomo si riscosse dalla sua contemplazione. Allora vidi anch’io il suo naso, che certo era grande ma non irregolare, e che dava in qualche modo dignità a un viso che, senza quella appendice, non si sarebbe fatto ricordare. «Cugino!» «Cugina!» Ora il barone Egon von Hahn si era levato in tutta la sua scheletrica altezza: «Cugino, ti credevo morto». «Cugina, anch’io…» Morto non era, visibilmente, ma del tutto vivo neppure. Il vestito grigio gli penzolava addosso non meno della pelle delle guance. Con una mano brandiva un bastone da passeggio, forse per l’eccitazione, forse per dare equilibrio a un corpo instabile che sembrava sul punto di farsi portare via dal primo soffio di vento. Io cercavo di tenermi in disparte per non turbare con la mia presenza l’effondersi di questi affetti, ma fui subito chiamato, presentato e congratulato. Poco mancò mi toccasse fare un giro su me stesso, per farmi vedere sotto ogni angolazione.

Egon von Hahn aveva la sua casa di Schwanenburg in Curlandia, non lontano da Windau. Prima della guerra, dicono, la proprietà andava famosa per la sua fabbrica di polpa di legno; vi lavoravano quaranta uomini e trenta donne, e tutte le donne indossavano un lungo grembiule bianco e azzurro. Vicino alla fabbrica c’era la chiesa e, vicino alla chiesa, la casa del prete. La domenica Egon von Hahn radunava davanti alla porta del castello tutti gli abitanti, compresa la moglie Etta e le due figlie; poi puntava sull’abitazione dell’intendente, batteva alla porta con una lunga pertica, e anche da lì faceva uscire tutti; così spingeva davanti a sé quel gregge umano fino alla chiesa. «Ecco, Padre, vi porto questi peccatori». Il Pope li faceva entrare e lasciava che si sistemassero come credevano vicino all’iconostasi. Poi accompagnava il barone in una stanza senza finestre dove l’odore dei sottaceti si mescolava a quello dell’incenso, e qui Hahn, seduto davanti a un tavolo di cedro, raccontava tutta la sfilza dei peccati suoi, dei suoi familiari e dei suoi sottoposti. Licy, che un anno era stata mandata a passare alcune settimane dai cugini quando tua madre ebbe la rosolia, si era presa di amicizia per una delle ragazze Hahn, e scambiò con lei varie visite e una corrispondenza che durò molti anni. Fu lei a raccontarmi la storia del cugino, un pomeriggio di pioggia in un albergo a Riga, non senza una certa fierezza.

Egon sapeva che bravate come portare i familiari e i dipendenti in chiesa a colpi di bastone appartenevano piuttosto alle eccentricità di un nobile di campagna russo che alla condotta di un gentiluomo baltico; tanto più se proprietario di una moderna fabbrica di polpa di legno. Ma quelle eccentricità non erano il frutto del caso.

Nella sua vita, Egon aveva cercato di essere simile ai suoi simili, di coltivare le terre ed educare i suoi figli come lo facevano i baltici. Viveva dunque ragionevolmente soddisfatto e sicuro di sé, quando nel 1905 il compatto universo della vita in Curlandia si schiantò, come un melograno preso a martellate. Schwanenburg per poco non fu incendiato, i contadini diedero fuoco alla casa dell’amministratore e ad alcuni fienili vuoti; soltanto l’arrivo di una compagnia di cosacchi evitò il peggio. Ma Stomersee era bruciato quasi da cima a fondo; e così Lettin, così Andern, Bolna e una cinquantina di altre case baronali tra Livonia e Curlandia. Egon aveva visto accadere queste cose con stupefazione, dalla sommità del suo lungo collo di tacchino. Gli avevano detto che a Wimpffen, dove gli Hahn avevano una casa di caccia e ottanta poderi di terra arabile – e lui stesso, Egon, era stato ricevuto come un principe pochi mesi prima, quando era andato a far compare di nozze alla figlia dell’intendente, e lo avevano fatto passare sotto archi di rami di quercia, e lui aveva baciato tre volte la suocera della sposa che non sapeva parlare né il russo né il tedesco – che proprio a Wimpfer, proprio quella suocera inutilmente baciata si era messa alla testa di un gruppo di contadine, era entrata nella casa padronale, aveva bastonato il vecchio Juri (che avrebbe dovuto fare da custode, ma era sordo e non aveva neanche sentito che gli sfondavano la porta), aveva ucciso a calci il cane Furuhalla (così chiamato in ricordo di una felice estate del suo padrone in Finlandia) e poi, quando erano arrivati i soldati, si era fatta trovare accanto a una bottiglia di vino di Sauternes, e lì era stata a sua volta accoppata a randellate da due cosacchi, non si sa bene se per dare un esempio alla popolazione di Wimpffen o per impossessarsi della bottiglia di vino. Naturalmente, dopo un fatto del genere l’intendente e la sua famiglia se ne erano andati, chi diceva in Lituania, chi addirittura in Russia. Egon era restato a Schwanenburg ad arrovellarsi su quel che significasse tutto questo. Povero Egon, non ci capiva molto ma sentiva che il mondo andava di traverso. Con l’andar del tempo si persuase che quel che era successo in Curlandia non era successo in Russia, non con la stessa ferocia per lo meno, e che nelle province russe delle colline del distretto di Vytebsk o nelle pianure del distretto di Pskow, i proprietari terrieri erano stati raramente molestati. Non sapendo come mettere l’orologio avanti, dopo minuziose consultazioni con diversi cugini e alcune cugine, Egon decise di metterlo indietro. Un po’ per astuzia, un po’ per segreta inclinazione prese a imitare i comportamenti di quegli stessi russi per i quali un tempo ostentava disprezzo. Cominciò a parlare russo; qualche volta con i baltici suoi pari che lo capivano male, più spesso con i contadini che conoscevano solo il lettone e non lo capivano affatto. Il ricordo degli avvenimenti del 1905 non lo abbandonava, anche se non voleva confessarselo. A dire il vero sentiva soprattutto un vago senso di disgusto. Quando d’estate usciva di casa col calesse leggero per andare a Kronen a ispezionare il bestiame al pascolo tra i campi di trifoglio, o, un po’ più lontano, oltre gli stagni di Drube, per spiare nel colore delle foglie di acero se era prossimo il passaggio delle oche selvatiche, quando faceva insomma le cose che aveva fatto per trent’anni e si fermava su un dosso di collina per far tirare fiato ai cavalli, non sentiva più la tranquilla fierezza d’un tempo nel volgere lo sguardo sui campi che gli appartenevano e che riempivano quasi l’intero orizzonte. Provava invece un senso di apprensione e di minaccia.

Per qualche anno il vecchio sentimento di dominio e quello nuovo di precarietà convissero in lui. Il primo era fortemente radicato nelle cose di ogni giorno, e si manifestava nel fastidio che lo assaliva non appena qualcuno lo avvicinava per ricordargli un obbligo, annunciargli un contrattempo o chiedergli di prendere qualche decisione. Se era seduto nel suo studio si voltava di scatto, chiamava il cane che subodorando burrasche aveva cercato di appiattirsi sui disegni a palmette del tappeto, e usciva, chiudendosi rumorosamente la porta appresso. Dopo un giorno o due impartiva l’ordine che gli era stato chiesto: ordine sorprendentemente preciso, e, il più delle volte, saggio. Così facendo Egon aveva l’illusione di dominare il tempo e gli eventi, di eludere l’indesiderabile, se non addirittura di abrogarlo. Nulla di metafisico. Sapeva che la vita di un uomo è confinata entro gli spazi ristretti e affidata al caso. Per parte sua accettava gli uni e l’altro; ma, nei limiti che Dio gli aveva assegnato, intendeva farla da padrone.

Per forza di cose, dopo gli avvenimenti dell’estate del 1905 – gli incubi, i saccheggi, perfino la proclamazione di una repubblica lettone – quel sentimento di pienezza e di fiducia si era fatto più raro. L’incertezza lo coglieva soprattutto quando la sua mente lasciava i piccoli per andare verso i grandi pensieri, quando si svegliava nel cuore della notte e subito (nell’oscurità il suo mondo si popolava di grandi figure) gli appariva la sua famiglia, ed Egon pensava al suo e loro futuro, oppure quando dalla finestra della casa di Schwanenburg si metteva a guardare attorno con un binocolo, dove l’avena e la segala fossero coltivate con più cura. I paesaggi che un tempo gli erano amici prendevano allora dei colori foschi e la gialla messe dei campi diventava di piombo. Egon staccava gli occhi dal binocolo temendo che la vista gli fosse venuta a mancare: era il mondo, invece, che gli cambiava davanti.

Le cose che ti racconto, caro nipote, sono tutte di seconda mano, tratte in gran parte dalla memoria di tua zia, che non sempre è affidabile e raramente imparziale. Da ragazza era stata anche lei incuriosita da quel cugino eccentrico, che pensando la Russia fosse più sicura della Curlandia e non potendo traslocare in Russia le sue terre, decise di portare in Curlandia la Russia intera. Aveva cominciato col cambiare nome ai cavalli: trasformò Blitz in Bliny e Glitz in Glinka. Poi cambiò nome ai poderi; invece di dar loro nomi lettoni se ne inventava di nuovi che i contadini dimenticavano subito. Un giorno decise di modificare in terrazze i tetti aguzzi delle torri di Schwanenburg, e non tanto – come sosteneva – per poter guardare il panorama dall’alto, quanto perché le cuspidi di tegole avevano un aspetto tedesco. Prese ad andare a Pietroburgo allegando i pretesti che di solito inventano gli amanti. Spesso stava via alcune settimane. Al ritorno era distratto e svogliato, e ascoltava di malumore i rapporti sullo stato dell’azienda.

Il fattore di Schwanenburg era un ebreo tedesco convertito, di nome Jung, un tipo lentigginoso e dimesso, che alzava la voce solo con la moglie e una figlia strabica. Jung capiva bene i sentimenti del suo padrone perché nel 1905 era lì anche lui, e la paura, da allora, non lo aveva abbandonato un istante. Sentiva con precisione quello che il barone percepiva confusamente: che il silenzio con cui veniva salutato la domenica all’uscita della funzione non era dovuto a rispetto ma a indifferenza; e che quell’indifferenza poteva trasformarsi in odio nel giro d’un minuto. Dato che anche lui aveva salvato la pelle grazie ai dragoni del generale Orlov (che poi forse avevano esagerato accoppando il maestro di scuola e un altro paio di teste calde), il povero Jung si era trovato per la prima volta nella sua vita dalla parte dei russi: e lì aveva fermamente deciso di restare. Non riusciva a capire, tuttavia, la necessità di fare le sciocchezze che faceva il barone, di vestirsi con le casacche di lino, cambiare nome alle puledre e, men che meno, di lasciare andare in malora la terra. Non a Schwanenburg, beninteso, che a Schwanenburg ci pensava lui; ma a Wimpffen, per esempio, e nelle altre proprietà dei Hahn a nord del fiume.

Un bel giorno, proprio nella stagione della mietitura, Egon si fece portare alla stazione di Windau, di lì prese un treno per Riga e passò la notte, per quanto se ne sa, all’hotel Excelsior. L’indomani non si fece vivo con nessuno, non passò al Circolo della nobiltà, per vedere se c’era posta per lui e per scambiare quattro chiacchiere. Andò invece dal suo amico, il banchiere Gennady Basargin, si fece anticipare diecimila rubli e gli lasciò in cambio un biglietto in cui gli riconosceva il debito e lo pregava di occuparsi delle finanze di casa durante la sua assenza. Etta era una donna devota e si limitò a scrollare il capo e a piangere un po’ in giardino quando le fu data la notizia. La figlia Johanna, che aveva compiuto quattordici anni qualche giorno prima, scrisse una poesia intitolata «Ritorna!» che fu lodata dalla sua istruttrice e letta ad alta voce, senza fare il nome dell’autore, in una classe del liceo di Libau. Poi, per alcuni mesi di Egon non si seppe più nulla e debbo aggiungere a malincuore che a Schwanenburg la vita continuò a scorrere come se nulla fosse avvenuto.

A febbraio giunse una sua lettera da Parigi. A maggio, una da Biarritz. Entrambe contenevano espressioni affettuose per la moglie e le figlie, ma non indicazioni sui suoi progetti futuri né mostravano interesse per l’andamento della campagna e della fabbrica. Etta fu tentata di partire per l’Europa per raggiungere il marito in uno dei tanti alberghi il cui nome figurava in caratteri dorati sulla carta delle lettere che riceveva. Ma la moglie del comandante della piazza militare di Windau, che era la sua migliore amica e confidente, insinuò che Egon fosse stato preso da una passione irragionevole – e pertanto destinata a estinguersi presto – per una vedova francese incontrata l’anno prima da amici in Estonia, e la sconsigliò dall’attuare quel proposito. Etta, atterrita all’idea di incontrare il marito in un albergo di villeggiatura e di dover esigere da lui delle spiegazioni che non desiderava, non chiedeva di meglio che di essere convinta a non fare nulla. Decise che la cosa giusta era di pregare Iddio, ma poi, vaga come era, dimenticò anche questo.

Egon, lo avrai capito da te, non inseguiva nessuna vedova, né bionda né bruna, né russa né francese; i racconti altrui e quel che lui stesso aveva visto nel 1905 avevano prodotto dei vermi che invadevano la grande torta della sua infanzia e della sua giovinezza, che brulicavano nei loro camminamenti tortuosi, insinuandosi tra paesaggi amati e volti familiari. Anche se il termine paura non si attaglia – dice Licy – a un gentiluomo baltico, non dobbiamo temere di usarlo. Come chiamare altrimenti le esitazioni che lo coglievano alla vista dei luoghi noti in cui lui si sentiva annidarsi dei trabocchetti silenziosi, come spiegare la sua fuga da Schwanenburg e il silenzio successivo? L’amore non c’entrava in tutto questo, e le lingue in Curlandia galoppavano a vuoto. Vero è che a Parigi si legò di amicizia con un giovane pittore tedesco di buona famiglia, dagli occhi chiari e dalla voce un po’ stridula; vero è che con lui andò a Biarritz e poi a Santiago de Compostela, a Lisbona e a Dublino. Ma questi – è ancora tua zia che lo dice – erano episodi senza importanza, increspature di superficie, incidenti di percorso, diremmo noi, di un’anima turbata.

Egon tornò raramente in Curlandia negli anni che seguirono. Lo faceva di malavoglia, per senso del dovere e per solidarietà verso una famiglia, che invece aveva rinunciato a lui. Non si sapeva bene cosa facesse in Europa né come vi passasse il tempo. Soggiornava spesso a Nizza e comprò una casa sulla Promenade des Anglais; qualche volta lo si vedeva ai tavoli da gioco di Cannes e Montecarlo ma non divenne mai una di quelle figure di clienti abituali, drammatici, caricaturali, inventati dall’aristocrazia russa, che costellano i miti della Costa Azzurra e ancora oggi ne rimpinguano le casse.

A te, che sei così giovane, invidio molte cose. La prospettiva di vivere, anzitutto, ma di questa non parlerò più per non coinvolgerti nella mia malinconia. Invidio poi la probabilità che hai di vedere il passaggio da questo al prossimo millennio. Come vorrei aprire io la finestra un giorno, la finestra che affaccia sull’inutile terreno di riporto che separa la mia casa da questo biancheggiante mare, spalancare la finestra, dunque, e tirar via le tende, guardare in su e vedere passare alte le nuvole e dire a me stesso e a quelli che sono sopravvissuti con me: questo è il nuovo millennio, questo è un giorno rarissimo, non più di sei o sette volte il sole si è levato su un giorno simile da quando gli uomini sanno che cos’è il tempo. E stupirmi che tutto sia così simile a ciò che già conosco e che Palermo, che il mondo intero sia altrettanto pericolante di prima.

Ma ancora più che all’alba vorrei essere lì al tramonto, quando l’ultima pagina di un millennio nato nel fuoco di Dio si chiude in un funesto Artico della ragione. Essere lì quando il ciclo si compie, quando Mallarmé raggiunge Jacopone sotto terra, e Stravinskij dà la mano a un cantastorie, e su tutti e quattro si può mettere una pietra tombale. Non ripetermi le noiosissime osservazioni dei filistei: che secoli e millenni sono solo il prodotto di sistemi di calcolo arbitrari, che un ciclo dell’Egira si è compiuto secoli fa senza che nessuno in Europa se ne accorgesse, che l’ultimo secondo di questo millennio sarà, come il primo secondo del Duemila, un attimo non diverso dai trentuno miliardi cinquecentotrentaseimilioni di attimi che l’hanno preceduto da quando è nato – semmai è nato – Cristo. Che m’importa se lo scorrere dei secoli è solo una liturgia? Conosciamo forse maggior piacere di quello del compiersi esatto di una liturgia e maggior rammarico del momento in cui questa si interrompe?

Non avrò come te, l’emozione di vedere un neonato millennio emergere dalla sublime putrefazione del cadavere del suo predecessore. Mi accontento di aver visto l’agonia dell’Ottocento, un secolo carico di gloria e arroganza, che non voleva darsi per vinto quando il suo tempo era ormai passato; e, quel che è più, di averla vista con gli occhi di un ragazzo tenuto per mano da una madre seducente, di aver varcato la soglia di alberghi monumentali, e di aver percorso frammenti d’Europa su treni quasi immobili e maestosi. Ecco perché capisco l’ansia del cugino Egon, che temendo, non senza ragione, che il mondo baltico finisse in briciole, cercava un rifugio tra lustrini e cristalli di città balneari, alla confluenza di un secolo nell’altro, sperando che il primo sopravvivesse in qualche modo alla nascita del secondo.

Una prima volta Egon tornò d’autunno, due o tre anni dopo la sua fuga da Riga, e si fermò a Schwanenburg qualche settimana. Lo accompagnava un uomo della sua età che il barone chiamava col nome e il patronimico. Era una creatura dall’aria distratta e i capelli biondicci, probabilmente tinti. «Che fate, Oleg Nikolaevič?» diceva Egon, «non vedete che non è il tè ma il bricco dell’acqua? Su, svelto, datelo qua, per favore». Nella veranda, dove i grandi vasi dei limoni erano già stati posti al riparo dai primi geli, Etta e le sue figliole sedevano compostamente con il loro ospite davanti a una tovaglia di lino ricamato, e il tempo sembrava essere andato a ritroso. Egon raccontò che Oleg Nikolaevič gli aveva venduto metà delle azioni di una grande miniera di carbone. Già ora, a distanza di pochi mesi, il capitale si era raddoppiato. Il barone intravedeva un avvenire prosperoso, e i suoi non avevano motivo di preoccuparsi. Prendeva un foglio di carta e lo copriva rapidamente di cifre. Oleg Nikolaevič fingeva di aiutarlo rosicchiandosi un’unghia. Alla fine entrambi sorridevano: i vapori diventavano sempre più grandi e i treni sempre più lunghi, le industrie si moltiplicavano e il prezzo del carbone saliva alle stelle; Egon non era più un gentiluomo baltico ma un finanziere europeo.

Etta faceva fatica a comprendere: suo marito si occupava di una miniera in Kamčatka vivendo a Parigi o a Berlino. Non poteva farlo altrettanto bene da Pietroburgo o addirittura da Riga? Egon si voltava verso l’amico con aria di commiserare le donne per la loro ignoranza delle cose del mondo, ma Oleg si era già distratto e guardava una grossa ghiandaia che si era posata sul ramo di un cespuglio piegandolo quasi a terra. Nessuno dei due rispondeva.

Il fattore accompagnava Egon in campagna, ispezionava con lui i granai, gli mostrava due nuove stalle appena finite di costruire: «Se lei volesse, signor barone, qui si farebbe una piccola fabbrica di formaggio da ingrandire col tempo. Abbiamo la stazione vicina, è un peccato non approfittarne». Lo guardava con occhi rassegnati. Il barone sembrava mesto anche lui e borbottava, qua e là, qualche parola. Una volta disse: «E quelli di Kronen, dicono ancora che un giorno o l’altro mi impiccheranno?». «Chi dà retta a quel che dicono i contadini di Kronen?» rispondeva Jung in fretta, «sono come bambini, un momento gridano e il momento dopo gli è passata».

Licy aveva diciassette anni e si trovava in visita a Schwanenburg il giorno in cui i due partirono. La figlia minore era stata fatta tornare dal collegio per salutare il padre che se ne andava. Tutta la notte aveva piovuto e anche il giorno prima. Il cocchiere si era avvolto in un telo per ripararsi dal fango della strada e stava immobile a cassetta come un idolo di pietra su un piedistallo. Egon sembrava tornato di buon umore, malgrado il cielo grigio e il freddo che sgocciolava giù dai pini, e si rivolgeva a Oleg Nikolaevič chiamandolo per nome e dandogli del tu. Vennero caricati due bauli, che furono coperti con una grande incerata; Egon si soffermò a fare delle raccomandazioni che non venivano ascoltate, diede la mano ai domestici e abbracciò le figlie. Etta correva su e giù senza ragione. Poi scomparve con un cesto di mirtilli e di uva spina: «Ho visto ancora molti funghi nel bosco, se restassi un po’ più a lungo» – si rivolgeva a Egon ignorando il suo compagno – «si potrebbe andare a coglierli con le ragazze…». I suoi ultimi tentativi di tratte.


Tratto da "Fili d'ambra. Il Rinascimento del Baltico." di Mario Geymonat e Giampiero Mele, Sandro Teti Editore.