Zigmunds Skujins
Sogni. Lampedusa a Stamariena
Accanto alla colonna della benzina sul cemento armato giaceva un tubo buttato da qualcuno, qualcuno che sicuramente aveva lavato la macchina; l’acqua gorgogliava borbottando sempre come da una fonte e Svaren guardando il torrente che lentamente stava scorrendo d’improvviso provò sete. Nella bocca avvertì l’amaro fresco della birra, e sentì pure come la schiuma sfrigolava adagiandosi nel bicchiere, e inghiottì con fatica la saliva, perché la lingua sembrava secca come un tronco di gesso. La fila proseguiva lentamente. In quell’istante toccava al trasportatore di fieno di ricevere la benzina, dietro di lui il vampiro dell’auto spurgo ritmicamente soffiava un fumo bluastro ed un camion incidentato con il ribaltabile tremava con impazienza. Anche se era la fine di agosto e nella profondità limpida del cielo si poteva avvertire l’autunno, il sole bruciava con un ardore assai estivo.
Svaren, cercando di scacciare i pensieri insistenti sulla birra, si guardava distrattamente intorno. Non capitava in questa cittadina della Livonia del Nord da almeno dieci anni, gli sembrava estranea e strana. Tutto era cambiato lì, tutto. Il viale ombroso di tigli era stato rimpiazzato da una strada nuova, che essendo larga, nuda e rossa di argilla assomigliava a un dosso di fortificazione, non si addiceva in alcun modo alla provincia verde e sembrava come buttato ai piedi del sereno paesaggio di provincia; le recinzioni abbattute con un’arroganza quasi provocatoria scoprivano i giardini demoliti ed i cortili spogliati delle casette dei dintorni. Anche la stazione stessa della benzina faceva parte delle novità. Prima, se Svaren ricordava bene, la segheria della fabbrica asciugava le tavole di legno. E poi questa fila di macchine…
Il trasportatore di fieno cominciò lentamente a muoversi, il carico ammucchiato in alto ondeggiò dolcemente e qualche fuscello di erba secca cadde sul cofano del motore della “Volga” di Svaren.
– Avanti, avanti! – una voce dura richiamava.
Alla colonna della benzina arrivò di scatto una “Java” tutta di cromo luccicante. Dietro la schiena del “fantomas” avvolto in una tuta spessa ed in un casco di plastica, sedeva, come se fosse stata rapita, una ragazza assai carina in un abito di seta sottile.
Arrivato al centro della cittadina, Svaren lasciò la macchina davanti all’albergo e andò a cercare qualcosa da bere. La strada principale era tutta sotto sopra e ricoperta da mucchi di sabbia. Gli edifici, che ai loro tempi, erano i più notevoli e prestigiosi tanto da caratterizzare il centro, ora in compagnia delle case nuove a quattro piani sembravano poco significativi e timidamente rimpiccioliti. Pure la chiesa ortodossa accanto al nuovo centro commerciale sembrava solo un chiosco di fiori. Ad un lato della piazza del mercato era stata costruita la stazione di autobus.
Dappertutto c’era folla di gente e di macchine. Le siepi secche delle aiole erano coperte da uno strato di polvere simile alla polvere del cemento.
– Giovane, compra le mele! Giovane!
Svaren si girò e sorrise. Una vecchia abitudine, un riflesso del passato. L’incarico di professore non andava assegnato alle persone giovani, ultimamente giovani studentesse gli avevano già offerto il posto sul filobus. Ma le mele davvero sembravano belle. Solo che al posto della lingua continuava a sentire un tronco di gesso.
– Se Lei avesse della birra…
– Dio, guarda che alcolizzato! Allora corri, corri pure al “Capriolo”.
– Laggiù vicino al forno?
– Sì, sì, lì dietro l’angolo.
Non era lontano. Davanti alla porta spalancata, con le brocche della birra in mano, vagava un folto gruppo di maschi eloquenti. Dentro, l’aria ronzava e suonava, fumava e puzzava.
Il caos più denso circondava il banco del bar, nel fondo buio accanto ai tavolini si poteva notare pure qualche sedia libera. Il pubblico era quello più svariato: vecchietti in abiti pesanti per uscire e con menti appena rasati venuti dai kolchoz, operai delle nuove costruzioni in abiti di tela grezza, coperti di barba vecchia come pirati della strada, passanti frettolosi fermati per un attimo e nullafacenti pigri, i visi anemici da camera ed i negri di bronzo abbronzati nel sole con la fronte bianca e la nuca ancora più bianca. La barista, giovane di anni, ma trascurata nel corpo, con le guance rotonde, rosse e lucide come se fossero laccate ed i capelli legati in un turbante largo di garza, si dava da fare, ansimando pesantemente. La birra veniva distribuita dalla botte e dalle bottiglie. I panini non sollecitavano l’appetito, il caviale giaceva appassito, il salame di pasta di wurstel grigiamente pallido. Sul vassoio umido ricoperto di aneto si annoiava una chela di pannocchia solitaria che ricordava tristemente come nella vita a volte si poteva mancare un’occasione.
Svaren comprò il chiaro di “Kokmuiza” e dopo aver infilzato sul collo della bottiglia un bicchiere, esaminò l’ambiente cercando dove mettersi seduto. Il bicchiere muovendosi tintinnava tremolante. In quello stesso istante nell’angolo più scuro un tavolino si liberò. Solo che non c’era posto per la bottiglia – la superficie di plastica azzurra era fittamente occupata da brocche svuotate, da piatti coperti di cenere e da un foglio di giornale umido abbondantemente coperto dai gusci di pannocchie di fiume.
In quel momento accanto ad uno dei tavolini un ometto di piccola statura saltò in piedi e fece allegramente un cenno con la mano.
– Venite pure, qui è di lusso proprio.
E disse in pura lingua italiana – Vorrei invitarla da noi.
Svaren rimasto in dubbio si guardava ancora intorno, ma l’ometto piccolo rapidamente già sparecchiava la sporca confusione sul tavolo, continuando a tratti con gesti teatrali a invitarlo da lui.
L’estraneo poteva avere circa sessant’anni. In abito nero tagliato alla vecchia moda, con un colletto inamidato, che quasi raggiungeva le orecchie affondate in ciuffi di capelli bianchi, e con un foulard di seta consumato al posto della cravatta lui assomigliava fortemente a qualche comico di operetta o a qualche statista uscito da un brano teatrale del secolo scorso.
Il comportamento del vecchietto sembrava non sorprendere i clienti abituali del „Capriolo”, perché la maggior parte non gli dedicò nessuna attenzione, solo qualcuno dei clienti seduti più vicino sembrava divertito e in qualche modo coinvolto, sparando battute in parte sprezzanti, in parte provocatorie.
– L’Alpino di nuovo si lascia andare all’ italiano, sarà sicuramente affamato della sua pasta!
– Ehi, Alpino, che ti occupi tanto dei piatti, zozzerai ancora lo smoking, é meglio che ci suoni il violino e avrai un bicchiere di birra!
Nel viso magro dell’ometto piccolo allo stesso tempo si rispecchiava l’ira e qualcosa simile all’orgoglio che non passava inosservato.
– Grazie. Ma con voi non parlo nemmeno. Che capite voi del suonare il violino. E voi stessi ubriacatevi della vostra birra, non sono caduto così in basso da stimolare le vostre vesciche piene con i suoni divini di Sarasate o Paganini. Non sono d’accordo.” Il nostro padre ha curato i ciechi nel corpo, ma che faranno i ciechi di spirito?” – così disse il mio amico Giuseppe Tomasi di Lampedusa!
Il vecchietto alzò in aria la mano in cui teneva un foglio di giornale stropicciato e ripeteva:
– Il mio amico Giuseppe Tomasi! Sicuramente per voi questo nome non é che un suono vuoto! E non me ne meraviglio affatto perché il vostro organo principale é la vescica!
Un uomo calvo di taglia grande, il panettiere o il macellaio, giudicando dall’abito bianco, alzò contro il veemente parlatore un bicchiere pieno e aggiunse cercando di tenere a bada un’ eccessiva animosità.
– Bravo, Alpino. Parola d’onore, te lo meriti. Tieni!
L’ometto già assai arrendevole squadrò il bicchiere, però dopo aver ricordato Svaren, bruscamente girò la schiena al calvo.
– Il calcio dell’asino può essere doloroso, ma non é vergognoso. Io parlo solo con gli esseri che pensano e bevo solo con gli amici.
Il vecchietto era piaciuto a Svaren dal primo istante ed in quel momento cominciò ad esaminarlo con più cura. La vitalità dei tratti appassiti era straordinariamente variegata. Ingufito, sembrava ombroso e iroso, però tutto l’aspetto schizzinoso spariva appena alzava le palpebre penzolanti e spalancava i suoi occhi chiari color argento . Occhi buoni e ingenui come quelli di un bambino che diventavano sempre più grandi finchè si nascondevano di nuovo sotto le palpebre penzolanti e il viso si spegneva.
– Mi permette di presentarmi, – dopo aver spinto la sedia nella direzione di Svaren, l’ometto premette il palmo della mano al petto, – Albert Pits, musicista e…
– ...uno scrivano pensionato, – il calvo lo interruppe, sghignazzando come un maialino.
– Si, purtroppo. Come disse il mio amico Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Noi viviamo in una realtà rigida perennemente mutabile alla quale cerchiamo di adattarci come alghe che ondeggiano nel mare.”
– Questo testo e’ tratto dal “Gattopardo”?
Pits, si sedette davanti a Svaren, ma dopo aver ragionato su quanto udito, di nuovo saltò in piedi e per un breve istante sembrò che stesse per piangere, il pomo d’adamo tagliente appuntito si mosse in un modo strano nella sua gola secca, ma l’ometto scoppiò a ridere e con sdegno si guardò intorno.
– Finalmente una persona illuminata sa chi è Tomasi di Lampedusa… Ché ve lo dico con tutto il cuore….. Per questi, – Pits disegnò con l’indice della mano un cerchio largo nell’aria, – il nome di Tomasi di Lampedusa non è che un suono vuoto. E non mi credono, pensano che dico delle bugie. Ma l’ho conosciuto davvero. Facevamo insieme passeggiate lungo il lago e nel parco del castello...
– A Stamariena?
– Esatto.
– Scrivono che fosse vissuto lì.
– Aveva delle scarpe lucide, né propriamente rosse, né gialle. Fumava di continuo dei sigari… Di mattina la baronessa dormiva a lungo e lui si annoiava. Dopo si sposarono, si intende, in segreto. Capisce da solo – la baronessa era ortodossa e lui di un’antica famiglia cattolica. Il signore siciliano… Voleva invitarmi ad essere il suo testimone di nozze, ma io a mia volta ero luterano. Alla fine si era messo d’accordo con due russi di Ilguciems.
– In che anno é successo?
– Allora bisogna cominciare a calcolare, i numeri non amano la mia testa. Era trenta, quaranta anni fa. Giuseppe non aveva ancora raggiunto la media età. Ora io ho sessantadue anni. Lui era circa dieci anni più anziano di me. Avrebbe ora più di settanta anni… La mattina, capirà da solo, l’aria era come il vetro. Nella sala del parco luccicava la rugiada. Ma sopra il lago aleggiava una foschia così bianca, bianca. „ Oggi farà una bella giornata,” diceva Giuseppe. sì,” rispondevo io,” solo speriamo che non arrivi il tuono. La tempesta. E mi cominciava a raccontare di Napoli e della Sicilia, della Calabria e di Messina. Gesù’, come sapeva raccontare! Si vede in ogni parola, non la parola, ma un quadro vivo…
Svaren con le punta delle dita toccò la bottiglia appannata, la sete si era un po’ placata, il pensiero di poter finalmente bere, suscitava una rilassante goduria.
– Le verso un po’?
Lo sguardo sognante di Albert Pits timido ed insicuro tornò dalla lontana e solare Italia.
– Perché farsi pregare? Bere con gli amici è piacevole.
La birra nel frigo era ben ghiacciata, le labbra affondando nella schiuma fresca, sentirono un piacere quasi sensuale. Come un bacio da giovane, rifletté Svaren. E dopo non si sa perché si ricordò molto chiaramente una scena dal „ Gattopardo” in cui Lampedusa aveva descritto Angelica e Tancredi nelle stanze abbandonate del palazzo di Donnafugata.
Tomasi, indubbiamente, era uno scrittore di prima categoria, un vecchio ragazzo intelligente. Era uno dei pochi che vedevano ed erano in grado di mostrare le teorie del mondo. Il passato ed il futuro, la giovinezza e la vecchiaia, la santità ed il vizio. Avrà tratto ispirazione per le sue visioni elegiache solo dalla sua natia Sicilia? Apparivano troppo universali, per essere radicate solo nelle particolarità di una terra e di un popolo. Forse qualcuna delle immagini del „Gattopardo” era stato scritto proprio lì, in Livonia del Nord, dove il tramonto del potere aristocratico in quei tempi appariva non meno evidente che nel regno lontano dei Borboni. E molto probabilmente – pure nel natio Ilguciems di Svaren, dove Tomasi aveva cercato testimoni per il suo matrimonio con la baronessa di Stamariena. Il fiume del tempo scorre e scorrendo fa la sua opera. Trenta, quaranta anni fa… Quindi le loro strade si erano incrociate una volta…
Con gli occhi della memoria Svaren guardava le stradine sabbiose di Ilguciems come erano state in quei tempi. Abitavano in una casa al piano di sotto della quale si trovava il forno e dove il cortile profumava tutto il giorno in modo invitante . Bisognava studiare alla luce della lampada a petrolio. Le mattine d’estate lungo il cancello della casa muggendo e gemendo con una calma dignitosa le mucche marciavano verso il pascolo. Il negoziante Greenhaghen possedeva un’automobile con le ruote fatte con raggi e delle gomme sottili, ed a tutti e due i lati del piccolo motore squadrato c’erano due ali grandi e i due occhi spalancati delle luci. Ma nel cielo dorato della sera sbuffavano aerei rossi e gialli, le teste dei piloti ne uscivano e, sorvolando, a volte, sorridevano e salutavano con la mano…
La folla della gente davanti al bar era diventata come più rada . Le voci dietro i tavolini si erano abbassate e più nessuno si interessava di Albert Pits.
– Non ho bevuto da tempo una birra così buona, – confessò Svaren.
– Sciura, portacene ancora due bottigliette, – Pits senza smancerie fece un semplice cenno alla barista. E dopo aver guardato con i grandi occhi Svaren, continuò il suo racconto:
– A Stamariena solo due persone sapevano l’Italiano: la baronessa ed io. A lui, venuto in un paese straniero, faceva piacere chiacchierare in lingua madre. Lei capisce da solo. Ed io a mia volta mi preparavo ad andare in Italia per imparare a suonare il violino. E dopo il nostro incontro e dopo tutto ciò che mi aveva raccontato, io capii ancora più chiaramente che la mia decisione era quella giusta. Un soffitto basso uccide il talento, l’arte vera non sopporta l’accontentarsi: tutto o niente. Forse da noi capiscono Grieg o Sibelius, ma non Paganini o Sarasate. Si sa, andare a Napoli in carrozza letto non era per la mia tasca. Ma Napoli è una città di porto. A Riga io faccio la richiesta per fare il marinaio su una nave e arrivato sulla costa italiana alzerò il capello. Ma da Napoli fino a Roma pure a piedi. Che sarà arrivarci seguendo la meravigliosa Via Appia? Il sole splende, i pini marittimi profumano...
– E lei ci è andato?
Albert Pits batté scontento il palmo della mano sul ginocchio.
– Non sono andato, capisce. Saulitis era morto, l’amministratore delegato mi disse: „Devi rimanere al posto suo, non daremo accesso ai libri a nessun altro.” Pensavo a ciò che sarebbe stato, metterò da parte dei soldi, rinforzerò le conoscenze della lingua…
– Sìì. Le buone intenzioni si scordano presto.
– Così non potrei dire però. Suono ogni attimo libero che ho. Mi esibisco in raduni ed in feste varie. Per un periodo dirigevo pure un’orchestra di strumenti a corda. Ma, lei capisce, non è lo stesso. Nel cuore tutto il tempo mi rode qualcosa. Poi iniziò la guerra, arrivarono i tedeschi, mi ammalai di tifo. Tutto l’inverno tiravo avanti né vivo, né morto, volevo alzare la mano – non ne avevo la forza. E così, anno dietro anno… Cin cin! In allegria!
Svaren asciugò il labbro superiore e riempì i bicchieri. A dire la verità, si meravigliava di se stesso.
Bisognava alzarsi e andare. Non era escluso che accanto alla macchina, annusando l’aria, già aspettasse il vigile. E queste fantasticherie dell’eterno musicista, potevano mai interessare del tutto una persona ragionevole?
Però Svaren rimase. Non si sa da dove erano arrivati una strana malinconia ed un languore inspiegabile. E’ possibile che fosse tutta colpa della birra, forse anche della franchezza di Albert Pits, ma l’argomento sembrava d’improvviso, di colpo, non lasciarlo andare. I pensieri scorrevano con leggerezza, in modo simile alla maglia strappata da qualcosa. Era venuta voglia di ricordare, di lasciarsi andare ai pensieri, di parlare. Ma allo stesso tempo nacque un malcontento irritante verso il vicino e verso se stesso e le parole risuonarono quasi duramente.
– “Le coincidenze non possono ostacolare la strada ad un talento vero. Se dentro c’è qualcosa di buono, prima o poi esce fuori. Sicuramente esce. Ma se non esce, non vale la pena di rimpiangerlo, saranno state solo sciocchezze. Io ai miei tempi avevo studiato nell’istituto tecnico insieme con uno –…… poi, il nome non e’ importante. Lo chiamavamo „ il sei meno „. Nel registro pieno di insufficienze, tirava avanti di anno in anno con fatica. Gli insegnanti scuotevano solo le spalle. Non sarebbe mai diventato un chimico, ma ora è diventato uno dei nostri attori più conosciuti.”
Albert Pits, un po’ confuso dall’incomprensione che traspariva dal tono di Svaren si ricompose presto.
– “Sì,” – disse, – “così è, non ho niente da dire in contrario.
Ma l’esempio del mio amico Tomasi testimonia la stessa cosa, no? Quando cominciò a scrivere? All’età di sessant’anni. Scrisse il „ Gattopardo” e morì. E basta. Ma fino a quel momento a nessuno era venuto in mente che era uno scrittore. Nemmeno io lo sapevo. Sembrava assai normale, di altezza sotto la media. Portava solo scarpe di vernice nera. Poco fa ho letto quel libro e come se mi avessero dato un colpo alla testa. Lui! Ed io, cretino, avevo scordato pure il suo nome. Giuseppe Tomasi di Lampedusa! Ma una volta facevamo insieme passeggiate nel parco. No, glielo dico, noi non sappiamo, a volte, che persone ci vivono accanto. Pensiamo – un uomo da poco, ma di fatto lui ha un sogno nel cuore. E finché l’uomo non è ancora morto, non bisogna seppellirlo. Non bisogna…
– Però tali casi sono rari. Il talento richiede lavoro.
– Ma io mica dico di no. Ma ogni frutto deve maturare nel grembo. Ma vai a maturalo quando tutto continua a girarti intorno. Forse avrei voluto partorire già da tempo, ma bisogna farlo nel bel mezzo della giostra, del casino.
– Questo paragone non va bene, – Svaren si animò – Si partorisce non quando si vuole, ma quando è arrivata l’ora.
– Ma non ho niente contro.
– Non capisco l’italiano, ma mi è capitato di essere a Napoli quando lì si esibiva Ojstrach; gli italiani facevano la fila lunga un chilometro.
Albert Pits esaminava con attenzione le sue dita.
– Non ha più senso parlare di suonare il violino. Non si tratta più di suonare.
Ma a Lei per primo svelerò un segreto: presto, assai presto vedrà la luce una composizione di note: „Suonata per violino in re minore” di Albert Pits. E poi – gettate pure la sabbia sopra. Cin, cin! In Allegria!
Svaren, guardando nella pancia brillante del bicchiere, di nuovo vide gli aerei rossi e gialli, che monotonamente sbuffando, circolavano nella serata serena sopra Ilguciems. Lui marrone cotto dal sole, con i capelli sbiaditi e la punta del naso spellata correva per i prati di Spilve. Brillava un cielo eterno e risuonavano le grida delle cinciallegre, tutto intorno c’era una pianura infinita, margherite, fiori di fuoco, carote selvatiche e cumino ondeggiavano al vento. Nelle cunette pestate dalle mucche nuotavano scattanti girini di acqua dalle gambe lunghe e piccoli ragnetti. Come il suono lontano di campane arrivava dal passato attraverso l’aria proveniva il suono profondo del dondolio delle botti di metallo sotto gli archi echeggianti dell’hangar. I motori degli aerei ed i pavimenti macchiati di olio degli hangar emanavano un aroma forte, ricordando il languore spento da tanto tempo e le speranze dimenticate.
Mettendo in moto le eliche della memoria, Svaren si ricordò il suo volo recente da Mosca a Habarovsk. Era sera, ad’occidente, il sole si era incastrato dalla parte dell’ orizzonte come una moneta piegata, che non entra nella fessura del telefono, ed il tramonto continuava. Sopra la Siberia l’aereo capitò in una zona di turbolenze, lampi bluastri illuminavano curiosamente le nuvole simili a montagne nere, sembrava come se sotto di loro le bombe atomiche facessero esplodere il mondo.
...Le nuvole scomparvero, trasformandosi in piccoli puntini neri. Ma i puntini a loro volta si trasformarono in simboli chimici e cifre e cominciavano a formare formule simili agli ornamenti di Madernieks. Se lui voleva partecipare alla conferenza, la relazione doveva essere pronta al più tardi entro la settimana. Ma non aveva più la precedente indistruttibile sicurezza di se stesso. L’idea tutto sommato convinceva, fioriva come un campo enorme di dalie con mille sfumature e nuance. Ma bisognava individuare fiori separati che potessero caratterizzare il giardino e poi si scopriva che le sue prove, prese singolarmente, erano assai scarse. Sicuramente, questo viaggio in campagna era una pura fuga. Prima simili strappi lo avevano aiutato. Ma quella volta non riusciva a liberarsi dai suoi acidi nucleici da nessuna parte, e questi piano piano lo mangiavano, lo spaccavano e lo erodevano. Pure là lo avevano già trovato. Da quel momento in poi avrebbe visto le formule pure nello specchio lucido dell’acqua, osservando l’amo.
– …E poi, capisce, quel posto dove Tomasi descrive il colloquio del principe con il
rappresentante del potere nuovo: „ Appartengo a quella misera generazione che è destinata ad andare su due cavalli – i tempi vecchi ed i tempi nuovi – e che non sta a suo agio su nessuna sella...” – Albert Pits continuò il suo monologo.
Svaren guardò l’orologio.
– Ma lei riesce a immaginare che ora è? Da ridere. Le sette e mezza!
Pits, sbattendo le palpebre, si fermò di stucco, versò nei bicchieri la birra rimasta e velocemente la bevette.
– Quando bisogna andare, bisogna andare. E’ tutta questione di alzarsi in piedi.
– Da che parte deve andare Lei?
– Come da che parte? A Stamariena.
– Allora siamo di strada.
– Uscendo per strada, erano stupiti dalla brillantezza della serata. Svaren fece un respiro profondo. Si allungavano lunghe ombre nere, da qualche parte abbaiava un cane e strideva un pianoforte. La strada principale sembrava vuota e placata. E, scavalcando attraverso gli scavi della canalizzazione gli venne in mente che lì andava seppellita quella vecchia cittadina con le casette minute ed i recinti grigi che erano esistiti ai suoi tempi. Ma il nuovo che alzava accanto la testa non era mica un piccoletto minuto e debole, ma qualche gigante acromegalico con una faccia da neonato e rughe da vecchio.
Accanto alla ruota anteriore della macchina, acciambellato comodamente, dormiva un gatto.
– Si sieda accanto a me, – disse Svaren, – sui sedili posteriori ci sono le canne da pesca.
Pits piegò lentamente le gambe dentro l’abitacolo e solo in quel momento Svaren notò che il vicino aveva nella mano un astuccio consumato di violino.
Subito dietro la collina la strada si inerpicò verso la montagna. Il sole splendeva dietro di loro. Su tutti e due i lati si stendevano fino in lontananza le colline più o meno ripide. Tra i cespugli e le rive ondulate del fiume si sdraiavano le toppe gialle dei campi di grano e quelli scuri lasciati a riposo. Incontro venivano i mezzi con il fieno.
Poi la strada si addentrò nella foresta, il crepuscolo si fece più denso. Poi vennero i prati, i campi ed i viali degli alberi di foglie solennemente irrigidite .
– Non è mica lontano, di solito vado a piedi. Nell’ordine di una passeggiata. .
Nel recinto con le teste alzate stavano le mucche. Tra i tigli vecchi apparvero grandi edifici in muratura.
– Fermo! Siamo arrivati! – disse Pits.– Forse anche lei entrerà? Qui un po’ a destra inizia il parco del castello. Tomasi di solito andava al lago passando per la zona delle querce. Ricordo, era una serata come ora. Strideva un grillo talpa, ma sopra il laghetto c’era una foschia così bianca, bianca. „ Una bella serata” dice. „ Esatto,” rispondo.” Solo se non dovesse venire il tuono. La tempesta.”
– Nu! Nu! Ma prima lo stava raccontando un po’ diversamente.
– Diversamente? – la faccia di Albert Pits si rabbuiò, d’improvviso sembrava confuso ed infelice.– Non può essere. Mi ricordo molto chiaramente.
– E’ possibile. Alla fine fa lo stesso. Sarà stato un'altra volta.
– No, come! Mi ricordo tutto chiaramente. Dall’inizio alla fine. Io venivo lungo quel sentiero, e lui veniva dal lago. Poi si fermò e fino alla grande quercia andammo insieme. Nel parco vivevano dei cerbiatti addomesticati e per il prato verde passeggiavano pavoni e fagiani. Scenda, scenda! Faremo un giro intorno al castello e le farò vedere le finestre della sua stanza La mattina la baronessa di solito dormiva, ma faceva la colazione sul terrazzo. E quando venivano gli ospiti, sotto la quercia grande stendevano una tenda e quando calava il buio appendevano lampioni nel parco. Ed i violinisti suonavano Paganini e Sarasate. Ma lei non può nemmeno immaginare come sotto questi alberi suonano Paganini e Sarasate. Aspetti, faccio subito…
Pits si piegò, poggiò l’astuccio sul ceppo e tirò fuori il violino; nelle mosse delle sue dita e nel suo fiato rumoroso ed agitato si avvertivano l’urgenza e la passione, come se lui fosse allo stesso tempo un giovanotto che fa cadere gli indumenti dell’amorosa, ed un vecchio tirchio che apre il baule pieno di soldi. All’inizio le corde scricchiolavano e stridevano in modo caotico, ma poi lo strumento fu a posto e, domando a lungo i suoni cominciò a cantare silenziosamente. Il viso premuto sul violino visse insieme con ogni accordo, sembrava come se i suoni gli facessero del male, accarezzassero dolcemente e dolessero dolcemente. A dire la verità sembrava lo stesso racconto sui cerbiatti nel parco del castello, sui lampioni nella notte, sulla lontana Napoli che si poteva raggiungere prendendo la nave e sulla Via Appia, fiancheggiata dai pini marittimi, che portava a Roma. Il violino di Albert Pits tesseva dei veli trasparenti delle memorie, ma il presente gli stava intorno, duro come un muro spesso. Già da tanto tempo nel castello era stata allestita la scuola di meccanica con l’internato. Nelle officine delle carrozze aggiustavano trattori e combinati. Il sentiero che portava al lago era stato segnato dalle catene dei trattori. Ma lì, dove una volta era stata allestita la tenda, ora dei ragazzi seminudi palleggiavano strillando con la palla di basket.
Albert Pits smanettò ancora il violino, poi lo rimise nell’astuccio.
– Sì,– disse, – è così. Se solo me ne fossi accorto prima. Ma sembrava sempre che ci fosse tanto tempo...
Nu, non c’e’ più niente da dire. Grazie e arrivederci!
Albert Pits, dopo aver messo sotto il braccio l’astuccio del violino, se ne andò attraverso il prato devastato dai trattori verso le case residenziali.
Svaren ritornò alla macchina. Gli egiziani antichi sicuramente avranno fatto bene, portando la mummia dentro la casa in festa sul più bello del festeggiamento.
La strada voltò a destra. Da un prato piccolo del bosco in stormi assonnati e radi si alzarono in volo le cicogne e senza muovere le ali facevano dei cerchi sopra i tetti coperti dalle foglie, sotto i quali vivevano le persone con i loro sogni. Nell’ardore focoso del tramonto gli uccelli apparivano a tratti rossi, a tratti gialli.
1965
Traduzione dal lettone da Žanete Vēvere–Pasqualini
Tit. originale: “Sapni”, dalla raccolta “Zebras ada” (Pelle di zebra)